Giacomelli

Ramo Giacomelli

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La sezione del Ramo Giacomelli

La sezione del Ramo Giacomelli

La pinata del Ramo Giacomelli

La pinata del Ramo Giacomelli

Premessa, Storia Esplorativa e Descrizione

Autore del testo: Cesare Raumer del Gruppo Grotte Schio (articolo tratto da Stalattite del 1980)

II Buso della Rana è una grotta molto grande. Lo speleologo che ripercorre i suoi angusti meandri, che ne attraversa i laghetti o che ne sale i ripidi pendii, nota ad ogni escursione angoli nuovi, che appaiono ancora vergini ai suoi occhi. E comincia la sete di scoprire qualcosa. Vedere cosa c’è di là. Perché qualcosa c’è di sicuro e ogni tanto qualcuno lo trova. Così ogni giovane speleologo alla sua prima esplorazione tartassa ogni minimo cunicolo con la segreta speranza di trovare la sala incantata, la galleria che prosegue… È sempre un’illusione perché centinaia di giovani come lui hanno già fatto la stessa cosa, anni e anni prima. Bisogna andare più in là. Pensare di fare, di vedere, di cercare dove è assurdo, è strano, è faticoso fare, vedere, cercare. Ed è proprio là il Santo Graal, il ricco galeone sommerso, il tesoro nascosto.

Chi pensava che quel caminetto, quell’insignificante comignolo di 10 metri puntato all’insù in fondo al Ramo Trevisiol potesse trasformarsi in una notevole diramazione verticale? Fino all’inverno scorso nessuno, anche se noi lo speravamo. Quando dopo una bella arrampicata in artificiale con staffe e chiodi, ci siamo accorti che continuava con un pozzetto, forse superando a nord la Sala della Targa. Ciò era strano perché la presenza di una forte corrente d’aria induceva a pensare a una prosecuzione positiva. Infatti, superata una grossa marmitta ed un salto di 4 metri ci siamo trovati in una stretta ma agibile fessura. La corrente d’aria era fortissima. Oltre, la grotta si allargava: era grande! Un grosso fusoide con la base di 6-7 metri e con le pareti levigatissime si apriva sopra di noi. Da una parte si poteva salire in libera sfruttando delle lamellature provocate dallo stillicidio proveniente da un rivoletto d’acqua. Dopo 7 metri abbiamo però dovuto tirar fuori il ragno (piattaforma per arrampicata in artificiale) per superare gli ultimi 4 metri esenti d’appigli buoni.

In cima c’erano due strade per proseguire. Una, a destra guardando il pozzo, si presentava come un grosso e nero finestrone sei metri circa più in alto di noi, che in una esplorazione seguente si è rivelato chiuso dopo una ventina di metri. A sinistra risalendo una china costituita da una montagna di fango appiccicoso, partiva un bel meandro molto promettente che dopo un decina di metri si trasformava in un pozzo, valutato profondo una trentina di metri. Appena fissata la corda ad un ancoraggio decente tre di noi sono scesi, con un po’ di fatica per via della « Grand Jorasse » e del fango copioso che la imbrattava. A destra e davanti a noi si ergevano camini altissimi.
Purtroppo il fondo del pozzo, seppur interessante dal punto di vista morfologico, chiudeva in un paio di meandri strettissimi, poco attivi e privi di correnti d’aria.

Siamo tornati la settimana seguente, abbiamo attaccato con il ragno l’altro fusoide che partiva sopra il pozzo da undici. Dopo cinque ore e mezza eravamo alla sommità, costituita da uno stretto meandro sospeso a venticinque metri di altezza, cui seguiva un gigantesco camino dalle proporzioni grandiose. Le pareti si ergevano eccezionalmente lisce fino a perdersi nell’oscurità. Da una parte il grande pozzo sprofondava in un’enorme baratro. Le nostre lampade a malapena riuscivano ad illuminarne i contorni lontani.

Potrei scrivere un libro solo per raccontare le varie vicende che ci sono capitate e che abbiamo vissuto nelle varie spedizioni effettuate per risalire questo enorme fusoide. Penso sia sufficiente dire che era alto 100 metri. Purtroppo lassù in cima chiudeva inesorabilmente perdendosi in una diaclasi strettissima.

Nonostante la malcelata insoddisfazione abbiamo ottenuto alcuni buoni risultati. La quota raggiunta è a +251 metri di dislivello dall’ingresso e questo dovrebbe già di per sé essere un record in Italia se si considera la quota di riferimento all’ingresso direttamente più basso.

Inoltre abbiamo esplorata «Rana» nuova per uno sviluppo di ben 453 metri. A rilievo finito abbiamo potuto constatare che dal fondo del Ramo Trevisiol (Sala della Targa) abbiamo risalito 131 metri; con altri 40 metri di risalita saremmo sbucati all’aperto, tra i verdi faggi dell’altopiano del Faedo. Ci avrebbe fatto un immenso piacere, in fondo era il nostro scopo.

La speleologia è una cosa viva, che si vive, e le scoperte in tal campo macinano il tempo che trovano.
Io sono sicuro che in futuro non troppo lontano qualcuno vivrà della nostra felicità, per ora mancata.

Il ramo è dedicato ad un nostro grande amico trentino alpinista e speleologo scomparso in montagna. Luigi Giacomelli è sempre vivo con noi.

 

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